giovedì 23 febbraio 2017

RICOSTRUTTORI DI COMUNITÀ

“L'altezza mi mette paura, e il sangue e i terremoti; per il resto non temo nulla, tranne la morte, il pensiero di mettermi a urlare in mezzo alla folla, l’appendicite, e un attacco di cuore, già, anche questo; così me ne sto seduto nella mia stanza con l’orologio in mano e un dito premuto sulla giugulare, a contare i battiti ascoltando i misteriosi borbottii del mio stomaco. Per il resto, niente mi turba.” (Ask the dust, John Fante)


“Ask the dust/Chiedi alla polvere” è la loro pagina facebook. Loro, sono un gruppo di ragazze e ragazzi di Arquata del Tronto e dintorni, tutti con meno di vent’anni. Quando li incontri hanno gli occhi luminosi anche se, in circa due minuti, nella notte del 24 agosto, la polvere delle macerie ha ricoperto la quotidianità. Sono stati i primi e sono i più giovani (e per questo saranno gli unici che cito per non dimenticare qualcuno tra tanti), a sentire il bisogno, di fronte ad una catastrofe come quella che da 6 mesi interessa l’Appennino di quattro Regioni, di raccontare, di raccontarsi, di fare comunità ancora in senso fisico e sulla rete, di mettersi a disposizione. Decine di comitati, associazioni, incontri, iniziative, assemblee; tutto rafforzato ed amplificato dai social, ma trascurato dai media tradizionali. E’ un fenomeno nuovo, il solo positivo chiaramente, quello generato dalla forza della natura, ma che coinvolge le persone e la società civile in maniera per certi versi imprevedibile. E che non va confuso con lo straordinario manifestarsi di gesti di solidarietà e filantropia che in questi mesi si stanno riversando sull’Appennino ferito dal terremoto. Quello di cui parliamo è un fenomeno autoctono, radicato nei territori. La gestione del post terremoto ad oggi è a dir poco complicata e difficoltosa, e su questo qui mi fermo. Ma ci sono dati di fatto: intere comunità “deportate” (come si definiscono loro) in alberghi e residence sulla costa, che vedono allungarsi lì la propria permanenza; paesi e frazioni oramai già prossimi al processo di fossilizzazione; persone che, nonostante tutto (e tutti) resistono a vivere precariamente sull’Appennino con i loro animali e le loro attività economiche, che sono la peculiarità non delocalizzabile di questi territori. A questa situazione, che in parte è figlia del caso, ed in parte è il prodotto perseguito di una vera e propria “Strategia dell’Abbandono” (#strategiadellabbandono su facebook), in questi mesi si sta contrapponendo un impensabile risveglio di civismo, di senso di comunità, di partecipazione democratica, che attraversa l’Appennino colpito dal sisma. L’espressione più evidente la troviamo sui social e sulla rete, ma questa è sempre la conseguenza anche di una pratica fisica di persone, associazioni, movimenti, gruppi impegnati in settori diversi della società, che si incontrano, discutono, propongono, con una solo obiettivo: quello di non far spegnere i riflettori sul terremoto e su quello che sta accadendo (o meglio su quello che non sta accadendo) a loro e in quei luoghi. I limiti dell’intervento pubblico sono parzialmente attutiti da questa società civile (che in diversi casi diventa per fortuna anche sostitutiva), parte integrante della quotidianità delle montagne che si autorganizza, mobilita, si informa e promuove, diventa soggetto attivo interlocutore con le Istituzioni. Tutto questo trova narrazione sui social, in un modo che è tutto fuorché nostalgico e retorico (la nostalgia del paesello o la meraviglia di fronte al paesaggio), ma al contrario è progetto, dimostrazione che la montagna significa casa, lavoro, servizi, economia, e che l’obiettivo è quello di proseguire a far essere questo territorio ciò che storicamente è sempre stato: un luogo di vita, la casa del Popolo dell’Appennino. Gli archivi storici narrano che a Castelsantangelo sul Nera, dopo il rovinoso sisma della Valnerina del 1703 (oltre 10.000 morti), gli abitanti sopravvissuti non scapparono o migrarono lungo la costa, costretti dalle Autorità del tempo, ma si misero subito a tagliar legna nei boschi per costruirsi delle casette provvisorie in attesa di rimettere in piedi quelle in pietra e muratura. E invece, la “strategia dell’abbandono”, ha tutto l’interesse perché l’Appennino, complice una volta il terremoto, o altre calamità naturali, si spopoli e le persone si distribuiscano altrove. Perché dare i servizi alle persone in montagna costa di più, tocca spendere risorse per la salvaguardia e prevenzione dell’assetto geomorfologico; e poi quando ci sarà da realizzare il nuovo gasdotto Rete Adriatica (ed anche l’inceneritore a Castelraimondo) la gente protesterà, i Sindaci si mobiliteranno, nasceranno comitati, con il rischio di rallentamenti, pause, interruzioni (un po’ come per l’oleodotto nei territori Sioux che ha fatto fare marcia indietro ad Obama e la farà fare alla fine anche a Trump). Meglio l’Appennino spopolato, per farci affari ad alto e losco impatto ambientale, tutt’al più con qualche villaggio vacanza; già molti servizi essenziali sono stati concentrati da tempo sulla costa e in pianura, e poi da quelle parti c’è tutta quell’edilizia residenziale e commerciale invenduta che è rimasta “sul gozzo” ai costruttori e palazzinari, e pure a qualche banca; se la gente la spostiamo suo malgrado lì, si rimette in circolo pure quell’economia fallimentare… Invece tutto il variegato civismo che si è generato a seguito del terremoto ribadisce il contrario: che l’Appennino è un valore e la vita su quel territorio è strategico per il futuro dell’intero Paese. Va colto come una spinta democratica, pur nella sua frammentarietà, finché non troverà un suo filo di continuità e di unità. Rappresenta, nella sua genuinità, un rilevante fatto politico. Dopotutto sull’Appennino italiano vivono oltre 20 milioni di persone. Circa la metà dell’elettorato passivo ed attivo del Paese. E’ prossimo forse il tempo che il Popolo dell’Appennino, stanco di essere più o meno degnamente rappresentato da terzi, si farà rappresentanza diretta, con nuove ed originali pratiche di democrazia partecipata dal basso? Anche questa, è una domanda da rivolgere alla polvere; non a quella americana dell’Est e del Middle West di John Fante, “da cui non cresce nulla”, ma a quella che il vento sposta dalle macerie dei paesi terremotati dell’Appennino; da cui è probabile ed auspicabile che possa crescere una nuova idea di comunità e di democrazia. 

martedì 7 febbraio 2017

LONTANO DAGLI OCCHI LONTANO DAL CUORE

L'apertura della 67° edizione del Festival di Sanremo, coincide per me con la casuale lettura di un commento di un post su facebook di una signora (che poi mi accorgo essere una compaesana), in cui l'autrice, rispettabilmente, sosteneva che del terremoto bisogna parlarne il meno possibile, perché risulterebbe essere deleterio per il turismo, causando ciò ripercussioni alla capacità di attrazione di questa parte del territorio appenninico. Sono convinto al contrario che mettere quello che è accaduto e sta accadendo sotto il tappeto, anche questo rientra nella #strategiadellabbandono, nel caso specifico quella “de noantri”. Come se eludere il fatto che ci siano stati anche qui sfollati e persone assistite in hotel (vabbè, però alcuni sono albanesi…), prime e seconde case inagibili, una strada indispensabile alla quotidianità, ancor prima che al turismo, chiusa per più di tre mesi, la tentazione per diversi, anche i più giovani, di andarsene, attività economiche che risentiranno pesantemente della situazione, possa salvaguardare a prescindere la quotidianità e le potenzialità economiche di questa zona, a spiccata vocazione turistica. Si fa così anche uno sgarbo agli amministratori locali che con sensibilità si sono prodigati, per quello che hanno potuto, per l'assistenza e per un ripristino della normalità in tempi ragionevoli, considerato che l'hanno fatto con mezzi propri, visto che questo Comune non fa parte del cratere (e qui, diciamocelo, diversi hanno fatto un tifo operoso perché Genga non rientrasse nel cratere); e farne parte, avrebbe significato per chi qui vive e lavora, per chi ha una attività economica, oltre che per il patrimonio immobiliare, una serie di sostegni che avrebbero compensato le comprensibili difficoltà di mesi che verranno. E lo sostengo, forte del fatto che l’essere nel cratere, per me non avrebbe comportato alcuna differenza (ho casa per fortuna sana, non ho qui la residenza, non ho attività economiche in loco, non dipendo da aziende locali). E invece, da un mio acquisito compaesano, che poi il 30 ottobre mattina magari è pure venuto in macchina  “a vedere che era successo qui a Falcioni”, e c'ha visto sbiancati in volto e impauriti, mi sarebbe piaciuto leggere un commento di questo tipo: "si, il terremoto qui c'è stato, eccome se c'è stato, parliamone tutti assieme, facciamo una grande assemblea pubblica, dentro quella palestra che il sindaco per la notte del 30 ottobre ha fatto aprire e riscaldare per quanti avevano paura a dormire a casa; ragioniamo assieme su come desiderano vivere qui poco più di 1700 persone sparse in 37 frazioni, su come far nascere e crescere i propri figli, lavorare, prenderci cura degli anziani, valorizzare le straordinarie peculiarità di questo paesaggio in maniera rispettosa, e senza essere più ossequianti, tra l'altro di serie B, del padrone quasi secolare, che c'avrà anche riempito il piatto, ma svuotato da ogni passione civile. Facciamo sfogare quelli che hanno avuto e hanno paura, quelli che c'hanno avuto danni, quelli che sono incazzati col mondo; ascoltiamo quelli che vogliono vivere qui e quelli che vogliono realizzare qualcosa di diverso da quello che s’è sempre fatto, chiamiamo i nipoti e i pronipoti che hanno le seconde case ereditate da nonni e prozii e che ci vengono alle feste comandate, e chiediamogli di impegnarsi davvero perché i loro patrimoni non diventino in poco tempo rovine abbandonate". Questo era il commento che serviva in quel post.  Proviamo a costruire, insomma, un'inedita e inusuale pratica di democrazia e di politica, una nuova idea di comunità, senza casacche, senza livori di paese, senza pensare che "prima i fatti miei, poi...", ma che invece "se penso per primo all’interesse generale, alla fine mi riescono meglio anche i fatti miei". Sull'Appennino ferito dal terremoto si può e si deve ricostruire non solo case, scuole, chiese, ma anche una migliore idea di democrazia e di comunità. Se non si accetta questa sfida, che certo è impervia, il fallimento è certo. Rimarranno le rovine, materiali e immateriali, prevarrà lo spopolamento, la fossilizzazione macilenta dei borghi, l'inselvatichimento del paesaggio, la trasformazione delle peculiarità naturalistiche ed architettoniche in uno sterililizzato e insapore parco divertimenti, attraversato in maniera indolore e senza alcun contrasto dal realizzando mega oleodotto Snam, che attraverserà continuativamente a soli 5 m di profondità il territorio appenninico di Abruzzo e Marche, proprio lungo dove si sono risvegliate le faglie. Al contrario, più che il silenzio e l’omissione sul terremoto, il potenziale turistico lo salvaguarda e lo rilancia un territorio vissuto, abitato, in cui la più incisiva operazione di marketing la fanno quelli che vivono qui, le persone, i bambini, i vecchi, gli adulti; non sostituibili da nessun infopoint o agenzia di accoglienza, o socialtour. Chi vuole venire qui non consulta la carta sismica o il decreto del governo con la lista dei Comuni del cratere. Chi è interessato a venire qui, turista o viaggiatore, lo sa che questa è zona sismica e che c’è stato il terremoto, e che ci potrebbe ancora essere, mica è un deficiente… Ma è interessato a sapere se ci sono borghi vissuti e non abbandonati, strutture di accoglienza sicure e di qualità, abitanti con una quotidianità con cui interagire e bere un bicchiere di vino, anziché hostess dal sorriso impersonale che potrebbero accoglierlo in qualsiasi altro posto del pianeta. Il fattore antropico, e la qualità della vita che arriva solo dalla cura del territorio, questa è la storia e la forza dell'Appennino. Le chiese, i musei, le grotte stanno sparse per tutto il mondo, perfino alle Bermuda. Con "Lontano dagli occhi" Sergio Endrigo arrivò secondo nel 1969 in quel Sanremo, edizione burrascosa in pieno clima sessantottino (vinsero per soli 9 voti Bobby Solo e Iva Zanicchi con Zingara). Endrigo, in quella splendida melodia, canta "Che cos'è? C'è nell'aria qualcosa di freddo che inverno non è Che cos'è? Questa sera per strada i bambini non giocano più." Che cos'è, cari compaesani? Ecco, parliamo del terremoto, parliamone tra noi e parliamo di noi, perché qui, a Falcioni di Genga, da cinque mesi i bambini che ci vivono, per strada non giocano più (alcuni hanno dormito impauriti per un mese e mezzo dentro un camper). E questo è un grosso guaio. 

giovedì 2 febbraio 2017

LE FERITE DI SAN SALVATORE

Il terremoto che ha colpito dal 24 agosto l’Appennino, mettendo in ginocchio l’entroterra di quasi quattro province marchigiane su cinque, ha avuto effetti dannosi anche nel territorio di Fabriano, sia su edifici civili, sia sul patrimonio artistico-architettonico religioso. Le scosse che si sono succedute, in uno sciame sismico che sembra non terminare ancora, hanno avuto nel fabrianese un effetto particolare: quello di confermare, qualora ce ne fosse ulteriormente bisogno, lo iato che esiste tra la città (fatta eccezione per una parte molto minoritaria) e l’Appennino che la circonda. In particolare con quella fascia montana che da Borgo Tufico si protende fino ad affacciarsi sulla Vallesina. Come se quella parte di montagna non fosse, dal punto di vista dei confini territoriali, anch’essa Comune di Fabriano. Questo in condizioni normali, e tanto più in situazioni di straordinarietà. Ciò vale per il rapporto con le comunità di persone che vivono e lavorano su quella montagna; un’operosità che è legata all’agricoltura, alla pastorizia, alla cura e manutenzione del patrimonio boschivo. Ma vale anche per un altro aspetto, quello spirituale e religioso. Su quei monti, a Valdicastro, è vissuto ed è morto uno dei Padri della spiritualità occidentale, San Romualdo, le cui spoglie mortali riposano nel centro storico di Fabriano. Un “gigante” della fede, fondatore dell’Ordine Camaldolese. Una narrazione che contribuisce ad alimentare la crescita del cosiddetto “turismo della spiritualità”. La Chiesa di S. Salvatore a Valdicastro, elemento storico ed architettonico originale del complesso abbaziale, rappresenta uno dei segni monumentali ed artistici più rilevanti del territorio. E seppur dal punto di vista immobiliare, è un edificio privato (e il fatto di esserlo, va sottolineato, almeno dal 1988 ha consentito che non divenissero delle vestigia diroccate ed abbandonate in mezzo ad un paesaggio inselvatichito), è tutt’ora consacrata al culto, ed è stato possibile sempre visitarla liberamente grazie alla disponibilità della Coop. “S. Romualdo” che ne è proprietaria, e che ha saputo anche coinvolgere l’associazionismo culturale locale nell’organizzare visite guidate ed eventi. Ma la Chiesa di S. Salvatore è per prima un punto di riferimento sacro per le comunità di persone (tutti cittadini fabrianesi) che vivono in quella parte di Appennino e che ogni 19 giugno, nella festività di S. Romualdo, si riversano in centinaia all’Abbazia per la celebrazione dell’Eucarestia. E dentro la Chiesa è custodita la “Madonna dell’Acqua”, una statua in cartapesta di Maria con in braccio il Bambino, che è legata alla religiosità popolare di quei luoghi (un tempo veniva portata in processione tra le frazioni montane), e che è tutt’oggi oggetto di culto e preghiera per l’intercessione per la buona stagione e la floridità dei raccolti. Ma dal 24 agosto la Chiesa di S. Salvatore è inagibile perché segnata pesantemente da subito dal terremoto che, con le scosse del 26 e 30 ottobre, e del 18 gennaio, ha visto aggravarsi la situazione. Però che questo patrimonio religioso ed architettonico rischi subire danni irreversibili, non sembra essere considerata una priorità da quanti hanno competenza e responsabilità per funzioni previste dalle leggi nel dover metterlo in sicurezza. Infatti la Coop. “S. Romualdo” già dalle prime luci del 24 agosto ha provveduto ad allertare il Comune di Fabriano e i Vigili del Fuoco, scrivendo contestualmente il 31 agosto alla Sovrintendenza secondo le procedure previste dal Ministero. Il sopralluogo dei tecnici del Comune di Fabriano è avvenuto il 12 settembre, con conseguente Ordinanza di inagibilità della sola Chiesa, firmata due giorni dopo dal Sindaco. Successivamente alle scosse di fine ottobre, su richiesta immediata della proprietà, si è svolto dopo diversi giorni un nuovo sopralluogo, Comune e Vigili del Fuoco, che hanno ravvisato la necessità di puntellare parte della struttura, per evitare che il tetto, aggravato ipoteticamente dal peso della neve o da altre scosse, potesse crollare; operazione questa che per norma compete al Comune. Nei primi giorni dell’anno, il 2 gennaio per la precisione, la proprietà, viste le preoccupanti previsioni meteo, ha sollecitato telefonicamente il Comune e la Sovrintendenza, inviando al Comune anche una p.e.c.  in data 5 gennaio; ma a questa non c’è stato nessun riscontro ad oggi da parte del Comune, mentre la Sovrintendenza aveva annunciato un sopralluogo (quello che sarebbe dovuto avvenire già a settembre) tra giorni 15 e 20 gennaio, ma anche la Sovrintendenza non s’è poi più vista e sentita. In quella zona dell’Appennino la scorsa settimana ha fatto oltre due metri di neve, e grazie al lavoro di prevenzione e sgombero delle imprese agricole del posto (compresa la “S. Romualdo”), la strada provinciale è stata sempre percorribile e le frazioni sempre raggiungibili. La Chiesa di S. Salvatore in Valdicastro non è stata ancora messa in sicurezza e puntellata, il tetto fortunatamente ha per ora retto al carico della neve (sicuramente grazie all’intercessione di S. Romualdo). L’Agriturismo e l’attività agricola non hanno subito danni dal terremoto; molti sono stati gli ospiti anche in queste settimane, essendo un punto di riferimento per le famiglie di tutta la Regione. Quello che una Cooperativa agricola quasi del tutto familiare, ha saputo fare in trent’anni su quella parte dell’Appennino, con lavoro duro e grandi sacrifici, in una comunità civile normale, sarebbe un fiore all’occhiello ed un’esperienza da esaltare, come significativa della possibilità di fare in montagna agricoltura biologica e produzioni di qualità, tutelando le biodiversità, valorizzando le peculiarità del territorio, e consentendone la sua manutenzione e cura. Ma tant’è, invece, quest’esperienza, come anche altre in quel pezzetto dell’Appennino, risulta essere vissuta come estranea, se non un fastidio, dalla Fabriano “dentro le mura”. Non consapevole pienamente ancora, che quel modello industriale che ne ha fatto la fortuna del Novecento, è stato sepolto dalla crisi e il miraggio che, con qualche ritocco, possa essere replicabile, è solo una pericolosa illusione. O meglio, per dirla con i versi del poeta Franco Arminio, non si è consapevoli che “il tempo delle merce è finito, sta arrivando il tempo del sacro”.