venerdì 3 novembre 2017

IN NOME DEL PAPA (e del) RE

Ed ecco che all'improvviso, inaspettato, non cercato, arriva, come nel basket, il gancio-cielo alla Kareem Abdul Jabbar, che ti meraviglia, e rende chiara la differenza tra realtà e mito. Qualche giorno fa, amico su Facebook, ma anche nella realtà, pubblica la foto di un documento d'archivio di Jesi del 1826. La cui lettura accende la scintilla e, per la prima volta, pensi al finora inimmaginabile: esiste una ragione, fondata storicamente, che lega la tua città natale e di vita per oltre 40 anni, Jesi, al paesello sull’Appennino, dove sei venuto a vivere da qualche anno, Genga. Finalmente trova pacificazione la dura scelta di essere emigrato di ben 28 km. Dando la giusta soddisfazione a quei due cicloamatori jesini che, qualche settimana fa, incrociandomi lungo la storica Clementina mentre passeggiavo con il cane, ho sentiti, una volta superatomi, dire uno all'altro: "Oh, hai visto quello chi è, è di Jesi, adesso s'è ritirato quassù...". Jesi, nell'anno domini 1826, si chiamava Regia Città di Jesi, c’era lo Stato Pontificio, e si stava sotto il dominio e pontificato di Leone XXII; ovvero Annibale Francesco Clemente Melchiorre Girolamo Nicola della Genga. Si, si dirà, ma adesso stiamo nel 2017... E mica tanto, perché da qualche giorno nella repubblicana, democratica e antifascista città di Jesi (così recita lo Statuto Comunale, quello della legge 142/90, non quello del XIII secolo), il Consiglio Comunale, ha approvato un atto in cui si stabilisce di avviare tutte le procedure volte a riappropriarsi del titolo di Regia Città, o Città Regia. Si motiva tale ambizioso obiettivo, in funzione di farne volano seducente nella promozione turistica e culturale della città, in cui nel 1194 nacque Federico II di Svevia, lo "Stupor Mundi". Il quale Federico, narra la leggenda, ma non conferma la storiografia ufficiale, ad un certo punto, in segno di riconoscenza per la natalità, avrebbe concesso a Jesi il titolo, o privilegio, di Città Regia. Ma siccome stiamo appunto alla leggenda, come per la verità, anche per la prima bisogna raccontarla tutta, e non solo un pezzo. E l'altra metà della leggenda, narra che Federico II, pose le autorità jesine e il popolo del tempo di fronte ad una scelta: o fregiarsi del titolo di Città Regia, o beneficiare di un grande gesto di mecenatismo, consistente nella realizzazione di una grande opera pubblica dell'epoca: rendere il fiume Esino un corso d'acqua navigabile da Jesi fino al mare e al porto d'Ancona, per sviluppare il commercio e l'economia di allora; e fare della città una metropoli del tempo. E gli jesini, posti di fronte alla scelta, un po' narcisisti ed egocentrici, rinunciarono all'infrastruttura e scelsero il titolo di Città Regia. A tal proposito, ricordo che anni fa, un imprenditore jesino, oggi main sponsor della riappropriazione della denominazione di Regia Città, mi disse che, a suo giudizio, gli jesini dell'epoca erano stati proprio stronzi a rinunciare al fiume navigabile per un titolo su un pezzo di carta... Di una scelta politica dell'oggi di questa natura, il primo sicuramente a sganasciarsi dalle risate sarebbe proprio Federico II... Come se Jesi, avesse bisogno per promuoversi dal punto di vista culturale e turistico, di un titolo sepolto non solo dentro il Pantheon, ma dal Referendum popolare del 1946. Ma, una classe dirigente a corto d'idee ed idealmente un po' nostalgica, s'attacca a tutto... La cosa seria, è poi però che, a forza di nostalgie e superficialità, in piazza a Jesi, ti ci ritrovi, come già accade, anziché frotte di turisti trasportati dal nuovo brand “Royal City of Jesi”, i neofascisti di Forza Nuova. Ma veniamo al nostro Leone della Genga, di cui la storia narra che, come Pontefice, non fu proprio un pastore di anime e uomo di Dio illuminato, ma anzi il contrario. Anche lui, qui nel paesello, è considerato un mito, e un forte promoter del genius loci contemporaneo, e di una vocazione culturale del territorio. Recentemente, gli hanno dedicato anche una fusione bronzea, opera di un artista del territorio, di cui si dice essere anch'egli un poco nostalgico "di quando c'era Lui...". Posizionata, non in una piazza o nel castello del borgo, ma in mezzo alla Gola di Frasassi, dove contrasta fortemente con i terrazzi stratigrafici dei calcari giurassici intorno. Qui, nel territorio dove sono state spremute a dovere per quarant'anni le Grotte di Frasassi, ma senza aver costruito alcun progetto duraturo di ospitalità, che andasse oltre le due ore di visita alle cavità. Qui, dove per decenni sono stati sacrificati il paesaggio e la bellezza, non al Regno di Dio, ma al regno familistico (oramai decaduto) novecentesco delle lavatrici e scaldabagni, e ai potentati dei cavatori, ed ultima la Quadrilatero (guarda caso nata dal genio imprenditoriale di uno jesino). Qui, si pensa, nel XXI secolo, che la valorizzazione del territorio non debba passare per politiche di recupero e nuova residenzialità degli abitati di 37 frazioni, e dell'ambiente (considerato che c'è un Parco Regionale), ma per l'immagine di un Papa che non ha lasciato tracce per primo nella storia della Chiesa. Visto che oramai la statua c'è, e a suo modo rappresenta un patrimonio artistico, io opterei per una sua ricollocazione al centro della mega area cementificata dello svincolo della Quadrilatero Valtreara-Gattuccio, pensato non per il raddoppio della statale 76, ma forse per l'ingresso in una megalopoli americana, visto il consumo di suolo, dove il bronzo farebbe più pendant con il calcestruzzo. Oltre che a fungere da utilissimo monolite apotropaico per gli automobilisti. Tutto questo, tra un'interpretazione caricaturale di un Imperatore e di un Papa, per prendere atto di come le modeste classi dirigenti attuali (ma non solo quelle politiche), non abbiano una benché minima visione di futuro per le loro comunità e per il territorio, ma abbiano solo lo sguardo puntato a corto sulle cabine elettorali. Facendo così perdere opportunità ai cittadini, e potenzialità di costruzione di un modello economico, prendendosi cura del territorio e dei centri storici, capace di riparare i guai dei decenni più recenti, favorendo una più giusta ed etica rete di relazioni sociali. In fondo, tra Jesi e Genga, a testimoniarci quotidianamente che siamo ancora al 1826 del famigerato documento d'archivio, c'è la ferrovia, che in qualità e tipologia del servizio, è rimasta ferma all'Ottocento. E, ad appiccicarci sopra delle infrastrutture storico-culturali, temporali e spirituali, si corre solo il rischio di essere ridicoli. E di perdere di vista il treno giusto e i bisogni reali delle comunità. 

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