venerdì 1 settembre 2017

ERA UN MONDO ADULTO SI SBAGLIAVA DA PROFESSIONISTI

‘Nessuno ci ha chiesto cosa volevamo fare’; ‘Hanno deciso sopra le teste della gente del paese, non sappiamo mai nulla, nessuno è stato coinvolto’; ‘Abbiamo una grande ragione per rimanere qui e mille per andarcene’.

A leggerli, questi pensieri, si potrebbe attribuirli a quelle che un famoso sociologo, di giovanile militanza eversiva, ha definito “comunità rancorose”; genti marchigiane indigene, abitanti l’Appennino terremotato. Oppure a esponenti incarogniti di qualche comitato. O alle “tribù”, a cui una nota fondazione economica marchigiana vuol spiegare, e imporre, “il come” si fanno rinascere queste zone dell’Italia centrale, piegate dal terremoto dodici mesi fa, ma cannibalizzate per decenni dal distretto industriale di un “capitalismo dolce”.

E invece no, quelli sopra sono i pensieri di alcuni ragazzi e ragazze di Arquata del Tronto, che hanno tutti intorno a vent’anni, e che da un anno animano una pagina Facebook che si chiama “Chiedi alla polvere/Ask the dust”. Si definiscono “un gruppo di ragazzi colpiti dal terremoto del 24 agosto nella zona del centro Italia, abbiamo la fortuna di poter raccontare la nostra esperienza e l'unico nostro obbiettivo è non cadere nel dimenticatoio e poter descrivere a tutti com'era, com'è e come secondo noi sarà il nostro territorio che se pur ferito ha una forza d'animo da poter trasformare il voler fare nel poter fare.” Il loro slogan è “Chi dimentica è complice”.

Li ho conosciuti un anno fa, e alcuni li ho ritrovati qualche giorno fa; sui social non li ho persi mai di vista, sulla pelle li ho sentiti sempre vicini.

Scrivono, informano, raccontano, si tengono stretti tra loro, sballottati qua e là sulla costa o in pianura, dopo l’esplosione sismica del loro paese.

Non hanno titoli accademici, non fanno i conferenzieri a gettone, non coniano espressioni del cazzo come “capitalismo dolce” e “sociologia delle macerie”.

Però, alla fine, sono gli unici che hanno presente, in questo anno che è passato da quel 24 agosto, e contrariamente ad un mondo adulto e alla filiera dei soggetti decisori, ed al di là dell’emergenza, della devastazione, delle inefficienze e dei ritardi, della mancanza di una visione della ricostruzione, qual’è il nodo vero che le crepe dell’Appennino hanno fatto affiorare: la mancanza, colposa o dolosa (agli esperti l’ardua sentenza), di reali pratiche di partecipazione democratiche nei territori colpiti dal sisma.

Passaggi fatti di informazione, ascolto, coinvolgimento, mediazione, sintesi e decisione condivisa. Quelli che riescono a far sentire, anche chi ha perso tutto, e da un anno stenta a vedersi nel lungo periodo, meno solo, meno abbandonato, meno disperato. E che servono a preservare in ciascuno i valori della dignità, della cittadinanza, di un senso di appartenenza ad una comunità civile più ampia.

Se questi giovani non verranno sopraffatti alla lunga dalla #strategiadellabbandono, e sapranno resistere, insieme a tanti altri sparsi sull’Appennino, saranno loro i veri artefici della ricostruzione; ma non tanto e solo di quella materiale, ma di un’idea di territorio e di comunità, e di ripristino di normali pratiche di democrazia, come sono quelle che fondano il loro riunirsi ed essere semplicemente comunità di giovani donne e uomini, e non associazione, comitato, o altro soggetto organizzato.

La #strategiadellabbandono, dopo un anno ha sempre nuove lusinghe, fondate su un “IO” (pubblico o privato) che decide e impone (e solo quando va bene comunica) cosa va fatto per il bene del territorio e di tutti; “IO” decido che ti deporto, IO decido quale economia e lavoro sulla montagna, IO decido quale ricostruzione, IO decido che il tuo paese non può essere ricostruito, etc etc. E molte volte lo fa anche inventandosi perlopiù puttanate finalizzate a riempire qualche saccoccia, spesso sempre le stesse. L’antidoto è la rimessa in campo di un “noi” e di un “insieme”.

Ma è uno scatto che deve fare anche il genius loci, superando piccoli e arcaici egoismi, opportunismi, rendite di posizione, lasciandosi contaminare da innesti che hanno scelto di vivere sull’Appennino come fatto valoriale e non pecuniario, dandosi una classe dirigente locale migliore e più all’altezza delle sfide, isolando una volta per tutte quelli che Franco Arminio chiama “gli scoraggiatori militanti.

“Bisogna andare avanti e ricostruire meglio di prima”; “Valorizzando il nostro paesaggio”; “Si potrebbe puntare la ricostruzione sul turismo”; “E quindi anche su un’economia che prima non c’era”; “Deve vivere di questo, non di centri commerciali”.
Eccoli qua i ragazzi di Chiedi alla Polvere, hanno le idee chiare e, soprattutto, sono integri. Al contrario di altri, corrosi da qualche ideologia perduta, o avvezzi alla marchetta istituzionale.


L’Appennino può contare su di loro. Deve. 





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