giovedì 27 luglio 2017

DI NUTRICI, DI NOCCIOLE E DI ALTRE SCIOCCHEZZE

Fa caldo a Fiastra, sotto il gazebo sopra il lago, affollato di persone. Non è come l'ambiente climatizzato di una sala convegni di uno storico hotel sulla costa. Certo, qui c'è la vista lago, anziché la vista mare; quel lago, dove riconosci subito sulle sponde i segni naturali dell'abbassamento forzoso del livello dell'acqua, fatto mesi fa per precauzione sismica. Così come, arrivando lì, e attraversando il borgo di Fiastra, sono dolorosamente evidenti i segni lasciati dalle scosse terribili del 2016 e, insieme, i segnali di una precaria quotidianità continuata in nei m.a.p. (container): le poste, la farmacia, qualche piccola attività commerciale. Container e case puntellate che ridisegnano un nuovo, indesiderato, ibrido modello urbanistico. Le decine di persone, eterogenee per provenienza, età, attività lavorativa, sono i partecipanti al Festival di TERREINMOTO Marche, la rete di associazioni, movimenti, cittadini, imprese locali, nata all'indomani dei terremoti devastanti per questo tratto di Appennino (da Fabriano ne fa parte il Laboratorio Sociale Fabbri). Che in dieci mesi e oltre oramai, volontariamente e quotidianamente, si è prodigata nella solidarietà, nell'informazione alle popolazioni colpite, nel rappresentare nei confronti della filiera istituzionale i bisogni e i diritti di quanti, in qualche minuto, hanno perso tutto: persone care, casa, lavoro, relazioni personali e sociali, e che si trovano sballottati e rimpallati tra camping e alberghi, ordinanze e scartoffie. E che rischiano, questo sì molto dannoso, di perdere dopo oramai undici mesi, la cosa meno materiale ma più preziosa che posseggono: la propria dignità di cittadini. Non ci sono, tra i volontari e gli animatori di TERREINMOTO, personalità di caratura accademica, o di lungo corso politico-istituzionale, o manager di aziende o fondazioni; piombati sul posto per le poche ore circoscritte ad un seminario o un convegno, anche se fino a qualche giorno prima l'Appennino marchigiano per questi era solo un puntino elettronico su Google Map. Ci sono giovani donne e uomini molto anonimi, molti dei quali laureati e con competenze qualificate, che ogni mattina hanno un grande, ma molto comune, obiettivo: svegliarsi per mettere insieme, come si dice, il pranzo e la cena; per sé e per la propria famiglia. E che sono associati da un unico, qualificante, comun denominatore: vivono, abitano (o meglio diversi abitavano), sull'Appennino colpito dal sisma. E, cosa assai incredibile, non  si prefiggono come altri di far rivivere, rinascere o risorgere l'Appennino; azioni peraltro, almeno le ultime due, che presuppongono una certa dose e facoltà di mistica e trascendenza. Quelli molto accaldati, che spostano le sedie a seconda di come gira la palla del sole all'orizzonte, sotto la tensostruttura sul prato, per riposizionarsi, non tanto a livello politico o professionale, ma semplicemente in base all'ombra di cui beneficiare, hanno semplicemente tre piccoli obiettivi molto terreni: “Tornare, Resistere, Ricostruire” (il tema del Festival). E un grande, enorme, emergenziale questione, che le faglie dell'Appennino, sconquassandosi, hanno portato a giorno: quale modello di democrazia esiste nella gestione dei territori, e nelle politiche per quanti vivono e lavorano in montagna? Perché, alla fine, il tema profondo che in questo caso il terremoto ha rimesso al centro, ma che potrebbe essere anche qualsiasi altro evento naturale che mette in relazione uomini e paesaggio, è proprio la democrazia. E guardando a molte delle procedure, sia legate alla gestione dell'emergenza che alle fasi successive, è evidente che l'indice di democrazia è abbastanza basso, quasi alla stregua di qualche paese autoritario della penisola araba con cui le nostre Istituzioni intessono rapporti di affari; e questo non solo per il post terremoto 2016, ma già dalla catastrofe del 2009 a L’Aquila. Pochi sanno che, ad esempio, nelle strutture adibite ad accoglienza della Protezione Civile, non vengono serviti caffè, alcolici, alimenti eccitanti in genere, e che per chi vi si trova a viverci temporaneamente, è fatto divieto di riunirsi in gruppo o comunità  Una sottrazione di concertazione delle scelte con le persone interessate, una spoliazione di ruolo delle autonomie locali, la mancanza di ascolto dei bisogni e delle peculiarità di chi sull'Appennino ha vissuto, e che vuole tornare per perseguire un proprio ed indipendente modello di vita, economia, relazioni. E TERREINMOTO, in questi mesi di questo si sta facendo carico, di ascoltare condividendo, di rappresentare allargando la partecipazione e il coinvolgimento, di mettere al centro di un percorso le persone. Di definire, partendo da una relazione fisica e quotidiana, una ricostruzione che non sia solo edilizia, ma ancor prima culturale, sociale ed economica. E il rapporto diretto, la relazione, definiscono un quadro più nitido di qualsiasi indagine del Censis, rispetto alle priorità per l'Appennino e la quotidianità dell'abitare sui territori montani. E due sono gli architrave di questa ricerca empirica e diretta, fatta non con la statistica e i questionari, ma per strada: la prima, che va posta fine alla rapina perdurante da decenni, in virtù di un profitto di pochi, del territorio, del paesaggio e delle risorse della montagna, che sono beni comuni (quindi per essere chiari, ma solo per fare un piccolo esempio, basta con infrastrutture e grandi opere, utili solo a qualche portafoglio). Poi, la seconda, che il futuro dell'Appennino non passa attraverso l'idea di un'economia turistica che lo trasformi in una sorta di grande resort o “villaggio vacanze diffuso” per ricchi, in cui la vita di chi ci vive ed abita, anziché la risorsa principale, diviene un fastidio (e per cui il perseguire politiche di abbandono e spopolamento è funzionale a ciò), un Appennino anziché di cittadini, per qualcuno di nuovi dipendenti. Già prima del terremoto, sull'Appennino molte erano le esperienze avanzate di agricoltura, pastorizia, ecoturismo, fatte da giovani che, partendo spesso da radici familiari, avevano le conoscenze e le competenze per far convivere "il pero con il computer". Per cui, tanto più ora, non c'è bisogno di qualcuno, che in virtù di un buonismo lacrimevole e predatorio al tempo stesso, arrivi da fuori per imporre un suo modello di sviluppo senza alcun rapporto di ascolto e confronto con i territori, finalizzato ufficialmente ad un generoso impegno per il rilancio della montagna ferita dal terremoto. Soprattutto poi, se questi “qualcuno”, sono gli stessi che in passato l’Appennino, per interessi economici propri, l’hanno spolpato quasi fino all’osso. A chi vuole tornare, resistere, ricostruire, non servono progetti di zootecnia intensiva perseguiti da colossi dell'agroalimentare, già trombati e respinti da altre Regioni e che si pensa di riciclare nelle Marche; come non servono progetti di frutticultura intensiva perseguiti da grandi aziende alimentari, senza una vocazione agronomica  in questo territorio, e non vincolati a rigorose prassi di coltivazione biologica. All'Appennino ferito dal terremoto, serve per prima cosa, il rispetto dei principi cardine della Costituzione Italiana: un sistema Istituzionale che garantisca diritti, servizi, legalità, rispetto e tutela del territorio. Se la ricostruzione passasse per declinare e perseguire anche e solo i valori costituzionali, saremmo già un pezzo avanti; ma invece dopo 11 mesi non è così... Queste riflessioni, e la conseguente definizione di politiche e scelte, allora, bisogna farle sul posto, al caldo e con qualche zanzara intorno, a contatto con la stanchezza negli occhi di chi dorme da mesi in una roulotte, per non far mancare niente alle sue pecore e mucche, o incrociando le lacrime di chi da quasi un anno non ha più una comunità con la quale intessere relazioni, perché quelle persone sono state deportate, frammentate e divise tra alberghi e camping marini, o guardando da un prato sopra un lago la bellezza e la devastazione. Politiche dal basso, partecipazione, dialettica confronto e, solo alla fine, decisione. Se si inverte il processo, e si guarda all'Appennino e ai suoi abitanti, come i corpuscoli su un vetrino di laboratorio, e si pensa e decide per loro quale debbano essere la cura e la terapia, si diventa conseguentemente nemici dell'Appennino e dei suoi abitanti; e nemici da sconfiggere; "quando la vita viene aggredita dall'esterno - diceva una ragazza sotto il tendone - la vita reagisce". L'incontro di Fiastra, e il percorso dell'esperienza di TERREINMOTO, ha davanti a sé ora una grande responsabilità e opportunità: riaprire, partendo dal dramma del terremoto e dal percorso della ricostruzione, la partita della democrazia nei territori, contro ,l'imposizione di un modello economico di depredazione delle risorse, nello spirito tale e quale a quello di quanti ridevano di notte nell’aprile 2009 e nell’agosto 2016. Un percorso, che passa attraverso l'estensione  e la saldatura di una rete di cittadini che attraversi tutta la dorsale italiana: da chi si batte per la difesa degli ulivi (e non solo) nel Salento, per l'acqua pubblica in Abruzzo, contro un gasdotto che attraverserà tutto l'Appennino per oltre 600 km passando sotto tutte le faglie attive che si sono attivate dal 2009 ad oggi, fino a chi lotta contro lo scempio e i micro terremoti causati delle grandi navi da crociera nella laguna veneziana, e contro la tav torino-lione; e tanti, oramai veramente tanti, altri. Alla fine, tutta la riflessione di questi mesi e di Fiastra, la sintetizza spontaneamente, sotto il gazebo sul lago, Enzo Rendina, che è venuto insieme ai volontari del Gus. Enzo è stato l'ultimo abitante di Pescara del Tronto; ha aiutato in quella tragica notte del 24 agosto a cercare i vivi ed i morti tra le macerie; poi lui non se n'è voluto andare, non ha voluto farsi deportare, ed è rimasto lì in una tenda fino a gennaio di quest'anno; quando una sera  l'hanno arrestato e carcerato, per inosservanza dell'ordinanza del sindaco (“s” minuscola in questo caso) che intimava a lasciare il territorio comunale a qualunque essere vivente. Ora è sotto processo che, come è tradizione, durerà anni. È un uomo buono e mite Enzo, si vede dagli occhi; ha solo un amore esagerato per la sua terra, e per il suo paese che è stato polverizzato dalle scosse. I giornali nei mesi scorsi l'hanno definito "irriducibile", perché non se ne voleva andare; una parola che richiama notti buie per la democrazia. "Irriducibile io? - si domanda Enzo sotto il tendone di Fiastra - Gli irriducibili sono loro, non si fermano mai".

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