venerdì 30 dicembre 2016

FALCIONI DI GENGA: VICINO ALLE GROTTE E FUORI DAL CRATERE. (*)

Si conoscono le Grotte di Frasassi, ma non si associa quasi mai il Comune di Genga a questo miracolo della natura. Di fatti non è semplice, perché Genga non è un unico borgo abitato, ma ben 38 tra frazioni e località che circondano le Grotte di Frasassi; 1797 abitanti, censisce l’Istat nel 2016, sparsi in 73,16 kmq. La tradizione popolare separa in due il territorio comunale, definendo due nuove etnie di abitanti: i “caccetti” e i “prosaioli”; i primi quelli che stanno sopra la Gola di Frasassi in direzione Umbria, i secondi quelli che stanno sotto la Gola di Frasassi, verso la costa adriatica. A Genga si è lavorato nel Novecento per gli elettrodomestici dei Merloni, poi dal 1974 per tutte le attività logistiche, di accoglienza e di ricettività che ruotano attorno alle Grotte. A dare occupazione anche il Salumificio di Genga, che trasforma buoni prodotti norcini, e l’acqua minerale Frasassi di Togni, che da qualche tempo s’è lanciato anche nella produzione di buoni vini. Parecchi se ne sono anche andati lungo il Secolo, chi a Roma, chi a Terni alle acciaierie, chi in Belgio e in Francia. Nel territorio politica e istituzioni, da sempre derivati dei frigoriferi e delle lavatrici, hanno voluto far credere che il solo valore da perseguire fosse quello della saccoccia; quindi anche il magnifico paesaggio delle Gole della Rossa e di Frasassi è stato immolato alla dea pecunia, che ha fatto nel tempo adepti fedeli a destra, al centro e a sinistra: inquinamento industriale astutamente sotterrato e riversato in fiume, attività estrattive che hanno ridisegnato le sagome naturali dell’Appennino e, per finire, la Quadrilatero con il raddoppio della statale 76, che sta finendo di devastare la valle, per riproporre tragicamente un’idea di sviluppo sepolta per sempre dai tempi della crisi della Lehman Brothers. Il moralismo delle Istituzioni e della politica ha voluto fare dal 1997 di questo territorio un parco regionale; che è in realtà un finto parco, dove non ci sono limiti alle grandi opere, alle attività estrattive e alla caccia. Qui però, nonostante tutto, ci vengono da tutto il mondo per le Grotte, per le escursioni e ad arrampicare lungo le Gole; in alcuni punti non si può fare climbing perché, dicono le Istituzioni preposte, l’attività disturba l’Aquila Reale di Frasassi che nidifica; però, secondo le stesse preposte Istituzioni, il nido dell’Aquila Reale non viene messo in pericolo dall’esplosione a cielo aperto delle mine di cava a pochi metri. Genga è la terra del Papa, il 252° Vescovo di Roma, Leone XII nato qui nel 1760, che non fu in pontificato un esempio di virtù evangeliche e cristiane. Però a Leone della Genga qui ci tengono molto, oltre alla rituale toponomastica e ad un’orrenda fusione bronzea dono dei Rotary, gli hanno dedicato in anni recenti anche una mela autoctona che cresce qui per i monti, un presidio di biodiversità: la Mela del Papa. C’è stato, prima di Leone un altro Papa, non autoctono, il 246° Vescovo di Roma: Clemente XII, che ha avuto a che fare con questi territori; nel 1733 fece costruire la prima strada di collegamento tra il porto di Ancona e la Flaminia, dal capoluogo dorico a Fossato di Vico, la strada Clementina, oggi SS76, che fino a qualche decennio fa, prima delle gallerie, attraversava la Gola della Rossa risalendo tutto il corso dell’Esino. Dalla  vecchia Clementina ancor oggi, dentro la Gola della Rossa, partono sentieri escursionistici strepitosi; uno porta in una quarantina di minuti al millenario eremo di Grottafucile, fondato ed edificato da S. Silvestro e dai suoi monaci. Falcioni è una delle 38 frazioni del Comune di Genga, quella che sta lungo la Clementina, sopra la sponda destra dell’Esino. Siamo quaranta abitanti, bambini, adulti, vecchi, italiani, albanesi e francesi e, per buona parte dell’anno, due lussemburghesi con radici gengarine. Tutti hanno l’orto e c’è chi c’ha pure un pezzetto di bosco; ci sono cani, gatti, capre, oche e galline. C’abbiamo anche una chiesetta dentro una casa storica, dedicata a S. Giovanni Battista; solo che il parroco polacco della frazione confinante, figlio della Chiesa del Papa amico di Pinochet, si rifiuta di celebrarvi Messa alla festa del patrono il 24 giugno perché, dice, è un immobile privato; e qui la gente, specie i più anziani, sono tutti incazzati. Qui fino ai primi anni Novanta c’era una macelleria storica, in cui si facevano decine di chilometri per venirci a comprare il castrato. Qui il terremoto c’era arrivato pesantemente già nel 1997; poi alcuni hanno ricostruito bene, altri riempiendo qualche crepa e basta, altri se ne sono fregati perché era la casa dei nonni o della prozia e l’hanno lasciata così. Poi il terremoto è ritornato forte nei giorni scorsi e di danni ce ne sono stati molti, specialmente là dove erano prevalse superficialità, trascuratezza e abbandono. Domenica 30 ottobre alle 9 stavano già qui il sindaco, il vicesindaco, i carabinieri e i vigili urbani a sincerarsi di quello che era successo e ad ascoltare le persone. Quattro case inagibili con famiglie sfollate, quattro transennate e una puntellata; diverse parzialmente agibili. Anche la chiesetta ha buscato fortemente e l’hanno transennata. La strada provinciale della Gola di Frasassi, quella che porta alle Grotte, era già stata chiusa dopo le scosse di mercoledì 26, e rimarrà chiusa per molto, per verifiche, controlli, rimozione massi e detriti caduti dalle falesie. Dopo il terremoto siamo tutti un po’ diversi, alcuni che non si parlavano per qualche vecchia ruggine adesso si parlano; altri che si salutavano e basta si sono ritrovati a raccontarsi un po’ delle proprie vite. Alcuni anziani la sera vanno a dormire in una sorta di baita di legno sopra il fiume, poi la mattina tornano su e riprendono le proprie attività. Un’ultraottantenne continua a dormire in macchina, mentre il figlio e il nipote dormono dentro casa. La strada Clementina è stata la via di fuga dalle case, il punto di ritrovo provvisorio e di appello di dove fosse quello e quell’altro dopo le scosse. Adesso stiamo qui, un po’ più umani e assai impauriti. Eppure la mattina quando ti svegli ed esci di casa, e oltre quella casa puntellata scorgi il Monte Revellone con le sue creste, torna la meraviglia per questi posti, per questo paesello di persone e storie così diverse. Che curioso per me, figlio della città dell’Imperatore di Svevia, Federico II, aver scelto di venire a vivere nel territorio di due Papi… Però questo è l’approdo di un cammino, di scelte fatte, di idee perseguite, di cose da voler ancor fare. Qui c’è quello che Franco Arminio chiama “nuovo umanesimo delle montagne”. Qui ci sono battaglie da fare per i beni comuni, nuove pratiche di politica e democrazia da sperimentare. Qui c’è spazio ancora per far capire che non si vive più di soli scaldabagni e cappe e per la saccoccia, ma si possono sostenere storie ed esperienze, molte giovani, che disegnano uno stile di vita differente, più sobrio e più felice al contempo. Per affermare, usando le parole del paesologo Arminio “che il tempo della merce è finito, sta arrivando il tempo del sacro” Qui c’è quello che cercavo. Qui c’è quello di cui una civiltà, una Nazione, se è tale, non può fare a meno. E questo è assai differente dalla preoccupazione di essere dimenticati. Noi restiamo qui, a Falcioni, al km 38 della strada Clementina, dopo la Gola della Rossa e sopra il fiume. Qui, vicino alle Grotte di Frasassi e fuori dal cratere. 

* scritto il 6 novembre 2016 (*)

domenica 4 dicembre 2016

I BISCOTTI DEL MONASTERO

Le scorgo da in fondo la salita che già ci aspettano sul cortile. Oltre i vetri della finestra si scorge il Vettore con i primi schizzi di neve. “La terra – dice la Madre Badessa - è arrabbiata con noi”. “Ne avrebbe molte di ragioni – gli rispondo – considerato come la trattiamo”; mi sorride benevola, senza aggiungere nulla. Dentro la casa di campagna, in mezzo l’alta collina fermana, si sta bene, non fa freddo come fuori, l’accoglienza delle monache è molto calorosa e funziona meglio del riscaldamento.  Fino a qualche giorno fa, non c’era una strada percorribile in auto per arrivare lì; poi il Comune ha fatto aprire una sterrata carreggiabile su quello che era poco più di un sentiero. Loro non sono contente di stare lì, si sentono sacrificate, un po’ in cattività, lontane da quella che era la loro perenne dimora abituale. Loro, sono le monache benedettine di clausura di Amandola. Il Monastero di San Lorenzo, già provato fortemente dalla scossa del 24 agosto che aveva già reso scarsamente agibile parte dei locali, il 30 ottobre è parzialmente crollato, proprio mentre alcune stavano in chiesa. Loro, sempre le suore, avevano resistito nel rimanere al monastero fino a quella domenica mattina, ma poi sono state messe in salvo dai pompieri; per qualche giorno hanno dormito al palasport cittadino; poi sono state trasferite in quella che era una proprietà dell’Ordine, frutto di un lascito benemerito di qualche anima pia. Anche loro vogliono ripartire, anche loro hanno la tenacia e la fierezza dei marchigiani che vogliono rialzarsi in piedi e, soprattutto, non vogliono abbandonare i propri luoghi. Sono nove, quattro di origine nigeriana; quest’ultime hanno ancora negli occhi la paura e lo smarrimento di chi non sapesse fino a un paio di mesi fa cosa fosse, come fosse, un terremoto. Ma la Madre Badessa, vuoi per funzione, vuoi per carattere, sa fare squadra, le tiene tutte sul pezzo e coinvolte in questa nuova, provvisoria e poco riservata, dimensione della vita claustrale. Insistono perché si resti a pranzo da loro, ci tengono. In una stanzetta noi, con gli operai che stanno sistemando un po’ di cose intorno alla casa per rendere maggiormente funzionale il tutto; in un’altra stanza loro, le monache: sono sì sfollate, ma pur sempre di clausura e le regole vanno osservate. Poi dopo pranzo, la Madre Badessa le chiama tutte nella stanza degli ospiti, e le sorelle nigeriane arrivano con degli strumenti etnici a percussione, e succede l’imponderabile per noi, quasi come il terremoto per loro: si accomodano sulla panchetta e attaccano un canto religioso della loro terra; la lingua è incomprensibile, ma la Madre Badessa e le consorelle marchigiane, battono il tempo con le mani. Fuori dai vetri i Sibillini, l’Africa all’interno della casa, catapultati su un altopiano nigeriano; una sonorità che mi riporta lontano di parecchi anni e di qualche migliaio di chilometri, su una chiesa cristiana in cima alla falesia di Badiangara, in Mali. Ma siamo lì, invece, nel fermano, con delle monache sfollate, sui “monti azzurri”. Dentro quella casa, così lontana e avulsa da sistemi di quotidianità, poco raggiungibile, abitata provvisoriamente da nove donne così estranee al nostro concetto di vita e di tempo, così piena ancora di paura, ma al tempo stesso anche di speranza, ho avuto la sensazione di trovarmi per qualche ora nel cuore del mondo; Ali Farka Tourè, poeta e musicista maliano, ad un intervistatore occidentale, una volta disse: “Per alcune persone, quando dici Timbuctu, è come dire la fine del mondo, ma non è vero. Io sono di Timbuctu e posso dirvi che siamo nel cuore del mondo”. E il “cuore del mondo” non è tanto dove si è, ma come si è e con chi si è. E allora i “cuori” del mondo possono essere infiniti. La faglia, con lacerazione e dolore come ogni ferita, ha portato a giorno sull’Appennino tanti cuori del mondo; che non sono solo borghi e paeselli sperduti qua e là, ma vite, storie, volti umani e di bestie che ogni giorno rendevano vivo e pulsante, pur tra molti sacrifici, quel territorio. Ma che i più scoprono essere veramente abitato e vissuto tutti i giorni, solo quando ci sono grandi tragedie, anziché essere uno sfondo ritoccato e virtuale su Instagram. Ecco, se la ricostruzione avesse come orizzonte politico ed amministrativo il concetto di “cuore del mondo”, la strategia dell’abbandono dei luoghi e delle comunità, non avrebbe nessuna efficacia. Nel congedarci tutte le sorelle abbracciano mia moglie, sorella anche lei per qualche ora. Quando usciamo per ripartire, vengono tutte sul cortile a salutarci. Incrocio gli occhi di una sorella nigeriana, quella che è scappata via dalla chiesa con il tetto che gli rovinava dietro. Prima del canto aveva lo sguardo smarrito; adesso gli occhi sono luminosi, c’è di nuovo quella luce densa che vedi solo in Africa,  e ci sorride. Un sorriso che ci fa molto bene. Loro vogliono tornare a San Lorenzo, al Monastero, hanno da prendersi cura del roseto e dell’orto. Ma, soprattutto, lì in mezzo alla campagna, non possono più fare i loro buonissimi biscotti.