giovedì 21 gennaio 2016

IL FASCISTA DELL'APERICENA

Non saprei se è un caso dovuto ad un mio particolare e temporaneo stato d’animo, oppure se ci possa essere un vero fondamento statistico, ma in prossimità di ricorrenze democratiche e della memoria da calendario, mi capita di prendere atto con maggiore percettività, da alcuni fatti che accadono in campi anche molto eterogenei della vita quotidiana, da cose lette qua e là sulla rete postate da anonimi cittadini e da cosiddetti opinion maker sulla stampa, o di chiacchiere orecchiate in qualche bar, ufficio, pubblico esercizio, di quanto sia radicato e neanche tanto sommerso in tanta popolazione italiana un orientamento identitario e culturale fascista. A prescindere dalla fascia generazionale, dal livello sociale e culturale, dall’orientamento politico. Sia chiaro, non un fascismo per forza nostalgico del ventennio o dell’ “uomo dal petto villoso”, oppure che si manifesta in forme politiche e culturali strutturate ed organizzate (è comunque pur vero che in Italia ce sono di diverse). Ma un fascismo più soft, che non milita o si organizza, anzi, nella maggioranza delle situazioni è fatto di individualità, di singoli che si fanno i cazzi propri; quasi light, da apericena. Che si manifesta ogni volta che nei comportamenti, nelle scelte individuali o familiari, nella visione di una comunità civile e sociale organizzata e del ruolo del singolo in quell’insieme, non ha radice strutturata la parola tolleranza. E allora, tra un commento su facebook e una coda allo sportello, tra un caffè e una paparella, tra una mezza manica fredda con radicchio e noci e un calice di IGT, prevale l’appellativo indicativo “quelli lì”. E l’indicatore di questo fascismo politically correct, completamente sdoganato negli usi quotidiani, diventa il linguaggio. Clandestino anziché migrante o rifugiato, zingaro anziché rom o nomade, frocio anziché omosessuale, terrorista anziché musulmano; ma anche un neorealistico richiamo alle cosiddette “cose buone fatte quando c’era lui”: palazzi, strade, ferrovie, etc.; quando “certe cose si che funzionavano”, mentre oggi non funziona un cazzo. Un linguaggio, riferimenti, comportamenti, oggi divenuti patrimonio comune di pensionati e studenti universitari, impiegati e liberi professionisti, commercianti e imprenditori, casalinghe e amministratrici delegate. Ricchi e poveri, evasori fiscali ed integerrimi paladini della legalità, timorati di Dio e laici incalliti.  E che si traduce in un riconoscimento elettorale, ma ancor prima di un personale e fisiologico bisogno, di una leadership politica in chiunque si proponga come “uomo solo al comando”, o quello che “o con me o contro di me”, bypassando ogni categoria politica storicizzata novecentesca, destra, centro e sinistra. Un fenomeno massivo, strutturato, e oramai, più che drammaticamente, tragicomicamente maggioritario. Nei confronti del quale, aimé, non intravedo se non inefficaci alternative comunitarie e politiche organizzate, tragicomiche anch’esse, e inconsapevolmente, nella più benevola delle letture, complici. Ma nei confronti del quale però riconosco, giorno dopo giorno, una significativa ma sparpagliata, perché irregolare e libera, moltitudine di disobbedienti;  “italiani che “sanno” e manifestano ogni giorno nelle piazza, nelle fabbriche, nelle scuole, ovunque, un dissenso che è il frutto di questa consapevolezza”.

giovedì 14 gennaio 2016

SI FA PRESTO A DIRE MACRO

Ieri mattina ho fatto 35 minuti di coda in un ufficio postale per pagare un bollettino. Mi trovavo in quel paese per lavoro, e avendo ampio anticipo rispetto ad un appuntamento successivo, ho deciso di approfittare per compiere una commissione personale. Un tempo di attesa alle Poste per il quale perlomeno innervosirsi lievemente. Eppure, ho aspettato tranquillamente seduto sulla panchetta che venisse il mio turno, guardando a quella situazione. Allo sportello, prima di me, non una coda consistente, ma solo un’anziana signora che era lì per riscuotere la pensione (e siccome la signora delle poste contava a voce alta, la pensionata non andava oltre la “minima”…), che tra operazione di  riscossione, controllo dello stato del suo libretto di risparmio postale, chiacchiera a 360° con l’impiegata e un’altra signora anziana che stava in attesa dopo di me sulla stato della quotidianità degli abitanti del paesello, è stata allo sportello oltre mezz’ora. Eppure non mi sono incazzato (strano davvero…), anzi ho pure partecipato alla discussione, chiamato in causa da una delle due anziane, se fossi a conoscenza su chi in paese usasse la bombola dell’ossigeno per facilitare la respirazione, avendo l’interpellante visto aggirarsi in mattinata un furgoncino che rifornisce bombole per l’ossigeno sanitario (forse la signora pensava che fossi il conducente del furgone di rifornimento delle bombole…); ho risposto con l’imbarazzato dello straniero “no, mi dispiace, non saprei, io non sono di qui…”. In quell’attesa, in un paese di meno di mille abitanti, in una delle cosiddette aree interne dell’Italia, mi era scattato lo stesso concetto del tempo avvertito in qualche villaggio africano, quando aspetti che parta il taxi brousse all’ombra di una pianta; che hai capito per certo che il pulmino prima o poi passa e che arriva a destinazione, ma non sai quando, perché dal villaggio precedente non parte ad orari predeterminati, ma solo quando è pieno, e prima di arrivare da te attraversa chissà quant'altri villaggi, scarica e carica persone, e riparte sempre solo quando è pieno. Un concetto del tempo e della quotidianità scarsamente occidentali, ma non per questo inferiori, semplicemente diversi. E già, l’Italia interna, quella oggetto di convegni, gruppi di studio, commissioni, propositi di rilancio, e poi abbandonata a se stessa nella quotidianità, rispetto alla salvaguardia del paesaggio, ai servizi alle persone, alla tutela del patrimonio storico e architettonico. In cui il monitoraggio dello stato civile e dei bisogni degli abitanti è esercitato da un’ultraottantenne che riscuote la pensione all’ufficio postale, aperto a giorni alterni. Ed in cui il presidio democratico è rappresentato da un Sindaco tuttofare, una sorta di volontario della Repubblica, che però si fa in quattro per tenere viva quella comunità, che sta conducendo una battaglia per riportare la pluriclasse in paese, dopo che il suo predecessore in virtù della efficentazione dei servizi e di una migliore istruzione, ha deciso di mandare tutti i giorni i numerosi bambini del paese a scuola a 20 km di distanza, perché la pluriclasse non garantirebbe un buon livello di istruzione primaria. “Eppure mia figlia – mi raccontava il Sindaco – ha fatto la pluriclasse e oggi fa la ricercatrice all’università”. Un Sindaco che sa chi sono “quelli che qui rubano nelle case”, perché conosce tutti e tutto, però poi la stazione dei carabinieri più vicina sta a oltre 20 km in un'altra città, dove comunque i militi che presidiano tutta l’estesa zona montana sono in tre. Un sindaco, che tra qualche tempo non ci sarà più, perché adesso il leitmotiv più in voga degli stessi che organizzano e sparlano nei convegni sulle aree interne, essendoci stati qualche solo qualche ora per la durata del convegno o ospiti di qualche struttura ricettiva per le vacanze, è la fusione dei Comuni, la semplificazione e centralizzazione dei livelli istituzionali e dei servizi ai cittadini, certi che questo produrrà una migliore qualità della vita per chi vive nelle aree interne, una migliore qualità dei servizi, ripopolamento delle comunità di questi luoghi e, soprattutto, meno sprechi e meno casta politica. E invece, quando in quella comunità di qualche centinaio di anime, non ci sarà più neppure un sindaco e un toponimo che è un presidio di storia ed identità, sostituito da un nuovo nome di una municipalità più ampia, espressione di  un anonimato linguistico, l’abbandono sarà ancora più forte, la voglia di scappar via di quei bambini oggi e giovani domani sarà ancora più urgente, il paesaggio dalla forte vocazione agricola e produttiva sarà ancora più preda di nuovi latifondisti del XXI secolo, o di  risorti palazzinari al servizio dei petroldollari di oligarchi russi e arabi. Attenzione quindi, se si è ancora in tempo, che quando si diluiscono le identità e si riconfigurano sempre più in macro i confini, si rendono più micro la democrazia e la qualità della vita. 

sabato 9 gennaio 2016

TRENT'ANNI (o quasi) DOPO...AL PUNTO DI PARTENZA

E già, sono passati quasi trent’anni da quando lessi la “Lettera ai cappellani militari” di Don Lorenzo Milani, che ebbe l’effetto di orientare i miei pensieri di poco più che adolescente, e anche qualche scelta di quegli anni. Ed è il tema, più o meno palese, della disobbedienza, che mi ha colpito di più in una questione del territorio marchigiano di questi giorni: quella dei medici di Fabriano, che continueranno a far partorire in città le donne che vorranno farlo, nonostante i provvedimenti, nazionale e regionale, che hanno chiuso il servizio da inizio anno. Tutti professionisti che, per dirla alla Crozza-Razzi, potrebbero benissimo essere assoggettati al “fatti li cazzi tua”. Sono fondamentalmente i gesti di disobbedienza, personali e collettivi, a partire da quelli di coloro che liberarono l’Italia dal fascismo, che consentono di ripristinare una normalità democratica. Disobbedienza come pratica democratica, quando la politica, e le scelte di quest’ultima, vanno a ridurre diritti e democrazia. Se la politica oggi, e in maniera per certi versi esponenziale anche rispetto ad un passato con tutti i suoi limiti ed errori, ha come prerequisito fondante l’obbedienza (al leader, al capobastone, al partito, alla consorteria, alla cricca, alla cosca,…), a tutti e tutto fuorché all’interesse comune, l’unica leva che hanno i cittadini è quella della disobbedienza. Alla politica obbediente che restringe i confini della democrazia, si può solo rispondere con gesti di disobbedienza civile, di ciascuno e di molti. Atti di sabotaggio (si, SABOTAGGIO, tanto la sentenza su Erri De Luca oramai fa giurisprudenza), non violenti, ma che abbiano la forza, anche testimoniale, di destabilizzare un potere miope e arrogante. Alla politica obbediente, più che la compravendita dei voti, è indispensabile la compravendita delle coscienze. “Ma come? Che fa questo qua? Non obbedisce?”: è a questo che non sono preparati; quella politica lì, la disobbedienza non la sa gestire, perché nel suo praticarsi diventa essa stessa politica, quella autentica, quella cosiddetta con la “P” maiuscola, proprio perché ha lo scopo di rimarginare democrazia e diritti che vengono lesi. Chi disobbedisce perché per interessi particolari si vogliono ledere diritti costituzionali, privatizzare beni comuni, compie un atto democratico, che rappresenta l’unico, ma doppio antidoto: alla politica obbediente, e all’antipolitica forcaiola. In quest’epoca la Politica sta proprio qui, nelle piccole o grandi scelte, e comunque anche potenzialmente portatrici di ripercussioni sul piano personale, di quelli che in ragione di un interesse generale e pubblico, disobbediscono. Li potremmo chiamare ricostruttori di democrazia. Trent’anni (o quasi) dopo, attraversati, per dirla con De Andrè, “litri e litri di corallo”, ne sono fermamente convinto. A proposito, proprio cinquant’anni fa, il 15 febbraio 1966, per aver scritto la “Lettera ai cappellani militari”, Don Lorenzo Milani venne assolto in primo grado dai giudici “perché il fatto non costituisce reato”.

giovedì 7 gennaio 2016

PARTENZA

Quando ho pensato al titolo di questo blog erano giorni in cui mi erano tornati cari alcuni versi di Pierangelo Bertoli, guardandomi intorno mentre passeggiavo con il cane; o il cane passeggiava con me, dipende sempre dal punto di vista dal quale si osservano le cose... Non avrei immaginato che al debutto del blog le frontiere, quelle con il cabinotto, le divise e la sbarra, sarebbero tornate ad occupare i temi della politica internazionale, evocando scenari passati, difficili da spiegare ai ragazzi della generazione Erasmus, e da riconsiderare per chi pensa che l'uomo è un essere che cammina e si sposta da sempre. Penso a questo blog come un luogo dove poter esprimere con più compiutezza di un post su facebook, il mio guardare sul quotidiano, quello sotto casa e quello a migliaia di chilometri di distanza. Con gli occhi di chi, in questa fase della vita, sa di aver attraversato qualche frontiera geografica, culturale, personale, politica e spirituale. Consapevole che ad ogni passaggio si è costretti a lasciar dietro cose superflue, e ad inzeppare tasche e zaino di quelle poche cose di cui si sa di non poter fare a meno. E la sola cosa che si è deciso di portare sempre con sé, è il voler guardare al mondo con la libertà di dire ciò si pensa. Consapevoli che sarà sempre un proprio minuscolo e relativo pensiero, ma non per questo barattabile con qualcos'altro. Perché per portarsi dietro questa libertà, di frontiera in frontiera, si è scelto di lasciar lì sul posto diverse altre cose. Non ci sarà un appuntamento fisso in questo blog, cadenzato. Ci sarà un pensiero quando le cose che guardo mi solleciteranno a scriverne. Grazie a chi avrà la curiosità, la pazienza e la tolleranza di seguire questa esperienza.