venerdì 8 luglio 2016

EMMANUEL E CHINYERY, LE MARCHE, E L'INNOCENZA PERDUTA (se mai avuta)

Il barbaro assassinio di Emmanuel a Fermo, non è sufficiente che possa essere riconosciuto come un gesto fascista, fatto da un fascista. Per molti, fascista, è una parola quasi impronunciabile, che non sta bene usare nel XXI secolo, e quindi meglio razzista, estremista di destra, o la molto più soft ultrà. Ed è quindi comprensibile e condivisibile, che anche molti si incazzino e pretendano che quel gesto e quell’omicida vengano appellati con la parola più propria, fascismo. Ma non può esaurirsi e finire qui. Quell’omicidio apre questioni e problematiche più profonde, che interpellano una regione e che esigono che, almeno, questa tragedia possa rappresentare l’opportunità, non rinviabile, per una terra di un milione e mezzo di abitanti, per fare un tagliando. Un tagliando al livello del suo sentimento democratico, che coinvolga i singoli, la società organizzata, le classi dirigenti, la politica e le istituzioni. L’omicidio di Emmanuel ci dice che abbiamo superato il livello di guardia, tutti e tutto. Il fatto che uno spacchi il cranio ad una persona perché considerato diverso, ha alle spalle tutta una filiera di valori, di sentimenti, di comportamenti, consapevoli ed inconsapevoli, propri di una comunità, che non solo negli anni si sono indeboliti, ma addirittura incrinati. E' il fatto che uno, al di là del suo istintuale tasso di aggressività e di cultura, arrivi a considerare normale, comprensibile e giustificabile, considerare l’altra persona, per provenienza e per etnia, una scimmia. E se questo avviene, significa che quell’omicida ha una certa consapevolezza che, nel considerare un africano una scimmia, possa essere nel pensiero comune della gente che ha intorno, un atteggiamento se non del tutto legittimabile, quantomeno sopportabile. E allora che cosa è diventata negli anni la società marchigiana, cosa sono diventati i tanto prudenti e timorati marchigiani? Dov’è finito quel tanto decantato humus comunitario ed identitario, che è stato per decenni assunto a modello e ad esempio (nelle relazioni, nell’economia, nei rapporti della società organizzata,…)? Perché, in un certo senso, l'omicidio di Emmanuel sancisce  l'attimo in cui si è persa quell’aurea di innocenza? O non c’è mai stata? Perché è sufficiente oggi la presenza, in una piccola cittadina, di una decina di richiedenti asilo, per mandare in tilt una cristallizzata e apparentemente tranquilla dinamica quotidiana, per far smarrire ai responsabili delle Istituzioni, senso di responsabilità, e trasformarli persino in promotori della paura, per smuovere sentimenti di ostilità, egoismo ed intolleranza anche in persone insospettabili? E’ stata la crisi? E’ stato il venir meno, nelle Marche di un’idea dei rapporti padronali e subalterni, concretizzatasi per decenni classe dirigente diffusa, e che creando dipendenza, nella sua implosione, ha lasciato tutti senza la figura rassicurante di un padrone? E’ stata la mutazione genetica, probabilmente irreversibile, di un modello e una pratica della politica improntata alla sola semplificazione, razionalizzazione, cultura del “The Truman show”? E’ stato il fatto che da diversi anni si è spinto sull’acceleratore culturale della costruzione di un’identità marchigiana (storicamente inesistente), anziché sulla crescita consapevole e partecipata di un nuovo e necessario umanesimo ed autentica comunanza? O è stato il fatto che, non solo nelle Marche, quando ogni aspetto della vita e della quotidianità, è improntato alla supremazia assoluta della merce, di conseguenza tutto è giustificabile al perseguimento di quel fine? Oggi, se usciamo dai mantra dei tweet e degli #, ci accorgiamo che questa regione (e i suoi abitanti) è più povera, più sola, più egoista e più corrotta. E di conseguenza più propensa a far sedimentare germi e sentimenti fascisti. E la risposta a tutto questo non può essere ancora la semplificazione di questioni che hanno necessità di complessità ed articolazione, ed un generico e riverniciato riformismo. Ma deve necessariamente essere la radicalità. Delle idee, dei comportamenti, delle scelte; private e pubbliche; individuali e collettivi. E’ necessaria una forte iniezione di eresia. Don Vinicio Albanesi, quando eravamo molto più giovani, e più giovane anche lui, ai campeggi ci portava a tavola una grande pastasciuttiera con dentro la pasta fumante, e ci diceva nel posarla al centro della mensa a cui sedevamo: “ecco l’Eucarestia”. Era eretico e blasfemo, nel fare e nel dire? Non saprei; certo era un messaggio forte per dei ragazzi di vent’anni, c’era l’idea di sentirsi una comunità di eguali, di mutualità, e di condividere un po’ per uno, ma per tutti con tutti, quanto bastava per vivere, il necessario. E di conseguenza nessuno si sentiva diverso, subalterno, ma autonomo e tra pari; libero di impegnarsi nel dispiegare la propria vita nella comunità più grande. Ecco, forse le Marche, hanno bisogno di prendere atto che "il tempo della merce è finito, e sta arrivando il tempo del sacro*". Ne saranno all’altezza, ne saremo all’altezza? Non ho molta fiducia, guardandomi attorno. Vedo molte indignazioni di giornata, costernazioni da primo post su facebook il ripetersi di stanchi ed inefficaci riti di solidarietà e cordoglio. Vedo la paura, se non il terrore, per chi ha responsabilità, seppur diverse, verso i cittadini, di chiamare la cose con il loro vero nome, perché ciò metterebbe in discussione un pezzetto del proprio potere e consenso. Non vedo, ma è dovuto sicuramente alla miopia, quasi niente di radicale. Quel gesto così apparentemente senza finalità e concretezza, a cui invita un poeta ed un intellettuale come Franco Arminio: “Mettiti in ginocchio anche se non credi a nessuno.

 *cit. Franco Arminio


PS. Immagine di Serrabernacchia (frazione di Genga)